Russia e Cina sono due imperi e, come tali, ben lontani dall’essere blocchi monolitici. Nella Federazione che fa capo a Mosca vivono popoli di etnie, culture, religioni e tradizioni molto diverse. Stessa cosa nel Dragone, dove ad una maggioranza degli Han (90-91% della popolazione) sono affiancati altre 55 minoranze. La storia ci ha insegnato che nazioni del genere, dei veri e propri mosaici, possono reggere solo se tenute insieme dal cosiddetto uomo forte, che a sua volta deve usare dei puntelli per non finire inghiottito dalle lotte di potere. Vladimir Putin e Xi Jinping, seppur in modo diverso e per rispondere a problemi differenti, utilizzano le stesse stampelle: nazionalismo e aggressività.
Da un lato, abbiamo una Russia che non è mai stata un Paese ricco, vittima di un complesso ossidionale patologico e con la percezione che potenza equivalga a dominio territoriale. Lo zar ha abbracciato questo bisogno, mettendo toppe sui buchi lasciati dal crollo dell’Unione sovietica a suon di cannonate in Cecenia, Georgia, Siria e, ad oggi, in Ucraina, nel tentativo di reclamare sia i territori che un tempo facevano parte dell’impero zarista e considerati ancora come tali, sia per mantenere viva l’idea che la Russia sia un Paese in grado di giocare alla pari, se non di superare tutti gli altri grandi attori del panorama internazionale. E ai carri armati, ha affiancato una retorica che vuole di Mosca il bersaglio dell’Occidente che ha trascinato le ex repubbliche dell’Urss nella Nato – ignorando il fatto che sono state proprio loro, una volta libere dal comunismo, a correre in massa alla porta degli Stati Uniti – e che sta combattendo contro la Federazione una guerra per procura a Kiev. E cosa c’è di meglio per unire un popolo, che puntare il dito verso un nemico esterno? Ha funzionato anche per la Nato, che si è rinsaldata dopo l’inizio del conflitto nel 2022.
Dall’altro, invece, la Cina, la seconda potenza mondiale, una nazione che diventa sempre più ricca ma che nasconde profonde disuguaglianze sociali, economiche e di modernizzazione. All’urbanizzazione folle di certe aree, in particolare lungo la costa pacifica e nel sud-est, si oppongono vaste aree scarsamente popolate e ancora essenzialmente agricole. La forbice tra ricchi e poveri continua ad allargarsi e certi settori dell’economia, come l’edilizia, sono in crisi. Basti ricordare il caso di Evergrande. Per quanto riguarda l’apparato militare, Xi Jinping sembrerebbe puntare a un esercito che possa eguagliare la potenza statunitense, ma non ha ancora né la capacità logistica di competere con gli Usa, né tanto meno una schiera di quadri dirigenti adatti a un potenziale conflitto, viste anche le continue purghe. Eppure, nonostante la situazione molto diversa, Pechino ripiega su posizioni simili a quelle russe: compattare il Paese puntando sul nazionalismo, e di questo progetto è un esempio lampante il genocidio degli uiguri, e aggressività con gli Stati vicini. Prima tra tutti, Taiwan, che la Cina rivendica come sua parte irrinunciabile. E poi, i vari scontri di frontiera sulle catene montuose al confine con l’India, e le continue provocazioni marittime contro le Filippine e il Giappone. Non guerra guerreggiata, ma una postura decisamente ostile che, però, lascia ancora spazio alla diplomazia. Perché il “patto sociale” del Dragone si basa sul fatto che il Partito comunista garantisca la stabilità, e un conflitto aperto, con tutte le sue conseguenze, provocherebbe un tracollo del suo potere.
Il risultato? Sia la Russia, sia la Cina sono ad oggi circondate da nazioni a loro ostili, un vero e proprio scenario da incubo per gli imperi di terra. E se pensiamo alla peggior svolta possibile degli eventi, ovvero un’ipotetica terza guerra mondiale, le loro forze sarebbero disperse in due teatri bellici dai capi opposti del mondo, contro un’alleanza internazionale che fa capo ad una sola egida, quella statunitense, che già ha le proprie forze schierate in decine di basi nelle vicinanze di entrambi.
Mosca e Pechino, dunque, si trovano incastrate in un dilemma, che minaccia la loro esistenza come imperi e come autocrazie. Perché le velleità bellicistiche di Xi possono reggere fino ad un certo punto senza un’azione, prima di diventare solo vuota retorica, lasciando un buco ideologico che sarà difficile da colmare. E Putin, anche se si porterà a casa pezzi di Ucraina, ha condannato il suo Paese a una sconfitta strategica che, con tutta probabilità, lo renderà poco più che un vassallo del suo – al momento – più potente vicino.

